L’Ultima Cena di Duccio. Sul desco un cibo insolito, spunta un maialino da latte

L’Ultima Cena, episodio conviviale descritto nei quattro Vangeli nel quale Gesù con i dodici Apostoli si accinge a festeggiare con anticipo la Pasqua, è stata raffigurata anche nella storia dell’arte durante i secoli. Essendo un momento legato alla celebrazione della Pasqua ebraica, i cibi convenzionali dovevano essere il pane azimo ossia il corpo di Gesù, il vino ovvero il sangue, l’agnello e le erbe amare. Gli artisti probabilmente restando fedeli alle tradizioni gastronomiche del Giovedì Santo, legate ad uno specifico territorio o giocando talvolta con la fantasia, arricchirono il desco pasquale con inusuali cibi, non convenzionali alle regole religiose, inserendo ad esempio albicocche, ciliegie, gamberi, formaggi e perfino lattuga. Nell’arte del grande maestro senese del duecento Duccio di Buoninsegna (Siena 1255-1318 o 1319) appare addirittura un maialino da latte, assieme a stoviglie in terracotta, coltelli, pani, piccoli pesci dalla simbologia cristologica e bicchieri con il vino.

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Duccio di Buoninsegna, Ultima Cena, dal retro della parte centrale della “Maestà”, 1308-11, Museo dell’Opera Metropolitana, Siena

Il maiale generalmente era considerato un tabù sia nella religione ebraica (regole prescritte nel Levitico e nel Deuteronomio) sia in quella mussulmana (nel Corano), entrambe monoteiste e monofisiche. Ritenuto animale immondo, era associato al peccato, alla lussuria, all’ingordigia. Altre ragioni di carattere igienico e dietetico negavano l’uso della carne di maiale, grassa e difficilmente conservabile, nei paesi dell’area medio orientale.  Nel cristianesimo al contrario il consumo di maiale non era vietato sulla scorta dell’insegnamento paolino, ma se ne limitò il consumo durante le vigilie delle maggiori festività, il venerdì, durante la Quaresima, l’Avvento, come atto penitenziale contro il vizio della gola, uno dei sette peccati capitali.

L’Ultima Cena di Duccio è in realtà una tempera su tavola, di dimensioni cm 50×53, collocata nella parte centrale del retro della famosissima Maestà, datata 1308-1311 e conservata presso il Museo dell’Opera Metropolitana di Siena. La Maestà era destinata all’altare maggiore del Duomo e fu un’opera di vastissima dimensione e di respiro, dipinta sui due lati, che determinò la fama del maestro senese. Sul fronte vi era la Madonna in trono col Bambino, circondata da una folla di angeli e santi, sul retro ventisei storie di Cristo e della Vergine. Era completata da una cimasa e dalla predella (delle storie di quest’ultima, otto si trovano sparse pure nei musei di Londra, New York e Washington).

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Duccio di Buoninsegna, Maestà, fronte, 1308-1311, Museo dell’Opera Metropolitana, Siena
Duccio di Buoninsegna, Maestà, retro, 1308-1311, Museo dell'Opera Metropolitana, Siena
Duccio di Buoninsegna, Maestà, retro, 1308-1311, Museo dell’Opera Metropolitana, Siena

Nella scena dell’Ultima Cena se da un lato la ieraticità e la solennità della composizione frontale sono tipiche della tradizione bizantina e dettano ancora l’assenza di spazio e profondità, dall’altro una vivacità di sentimenti e di narrazione che pone le figure in uno spazio meno astratto e più naturale, traccia le linee di interni primitivamente prospettici, dove l’inclinazione delle assi del soffitto e delle pareti laterali crea la terza dimensione. Un cromatismo lineare, armonico e una vena aneddotica nuova e assente nella pittura senese anteriore a Duccio, lo portano all’indipendenza pittorica da Cimabue, che unendosi ad influssi culturali nordici rielaborati dalla sua esperienza ormai matura in pittura, immettono nel suo linguaggio la nuova dimensione gotica, che influenzerà successivamente il giovane Simone Martini e  i Lorenzetti.

Annamaria Parlato

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